Fonte: GianfrancoGozzi .it

Cenni storici

La prima fissazione endomidollare risale al 1907 ad opera del chirurgo belga Lambotte coniatore del termine “osteosintesi” il quale sintetizzò una clavicola usando una lunga vite endomidollare e nel 1937 sperimentò la fissazione assiale con fili di Kirschner o chiodi di Steinmann insieme a Lérat.


Nello stesso anno Marino Zuco effettuava la sintesi endomidollare delle fratture di avambraccio con fili di Kirschner.
Nel 1937 negli U.S.A. i fratelli  Rush descrivevano una tecnica di fissazione longitudinale del femore e dell’ulna in cui il mezzo metallico costituito da un robusto chiodo di Steinmann, uncinato ad una estremità, veniva usato come fissazione temporanea.
Nel 1940 Kuntscher  ideando la sua tecnica di fissazione endomidollare per primo incontestabilmente dimostrò che l’osteosintesi poteva giovarsi della presenza di una cavità nelle ossa lunghe.
I principi di tale sintesi erano: l’introduzione del mezzo per via extra-articolare  lontano dal focolaio di frattura, la riduzione realizzata con manovre esterne prima dell’intervento.
Sempre Kuntscher osservò come il chiodo endomidollare eserciti sull’osso sia uno stimolo di ordine meccanico, dimostrato dallo sviluppo di un callo endostale derivante dalla faccia profonda della corticale, sia uno stimolo di ordine chimico, deducendone che il periostio è sensibilissimo ad ogni eccitazione chimica partente dalla cavità midollare.
Egli riteneva che il vantaggio dell’inchiodamento endomidollare fosse proprio quello di evitare lesioni del periostio in quanto ritardavano la guarigione ( 2 ).
Tali concetti furono ripresi nel 1965 da Monticelli e coll. che nella relazione al L Congresso SIOT mettevano in evidenza i vantaggi della sintesi endomidollare consistenti nella necessità di piccole incisioni, nella riduzione al minimo del trauma operatorio con modesto scollamento periostale e nello scarso pericolo di infezione ( 36 ).
Successivamente sono stati realizzati e ampiamente utilizzati numerosi sistemi di sintesi endomidollare con montaggi statici e dinamici.
L’elevato grado di sicurezza apportato dalle metodiche a cielo chiuso, in contrapposizione anche alla crescente diffidenza per la sintesi con placche, promosse inoltre lo sviluppo di un’altra scuola di pensiero, quella delle sintesi endomidollari flessibili, che trovarono espressione più nota nel chiodo di Ender.
Molti chirurghi intuirono subito di avere tra le mani un mezzo di sintesi dotato di eccezionale versatilità e sicurezza d’impiego.
Nelle fratture dei segmenti diafisari si attuarono montaggi a torre Eiffel o ad archi secanti, ricercando nel contempo morfologie di più sicuro ancoraggio anche nel tessuto spongioso.
Analogo significato hanno i chiodi di Scaglietti a curve multiple: il conseguimento di numerosi punti di contatto fra canale e chiodi determina buona stabilità anche nei segmenti diafisari.
Gli anni più recenti testimoniano il continuo fiorire di nuovi chiodi endomidollari, più versatili e di impiego più agevole ( 2 ).
Nel 1996 nasce il sistema Multifix da un’idea del dott. Gianfranco Gozzi, presso l’Ospedale “C e G Mazzoni” di Ascoli Piceno.
Ispirato agli stessi  principi di biomeccanica di altri sistemi di sintesi elastica - dinamica ( 57 -  9 ), se ne discosta per alcune caratteristiche di struttura e di tecnica chirurgica.
Questo sistema di sintesi integra i caratteri di una sintesi endomidollare elastica a quelli di una  sintesi esterna essendo provvisto di un morsetto di bloccaggio all’esterno.
Come metodica percutanea si dimostra minimamente invasiva.
E’ utilizzato nel trattamento delle fratture metaepifisarie e in alcune fratture diafisarie delle ossa lunghe degli arti semplici e complesse.

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